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martedì 26 maggio 2020

STEP #20 NELLO ZIBALDONE DI LEOPARDI

L'efficienza della commedia

"(...) La Commedia allora principalmente è utile quando fa conoscere il mondo, i suoi pericoli, vizi, vanità, seduzioni, tradimenti, illusioni, ec. ai giovani alle giovinette ec. giacchè ai vecchi che già lo conoscono non serve gran cosa (...)" Zibaldone
Lo Zibaldone è un diario personale scritto dallo scrittore e filosofo Giacomo Leopardi, composto tra il 1817 e il 1832, ricco di pensieri, osservazioni, appunti, riflessioni e aforismi, che pongono le basi ad importanti scritti successivi.
La citazione riportata all'inizio da' voce all'argomento di questo post: l'efficiente funzione formativa svolta dalla commedia nei confronti dei giovani.
Va sicuramente ricordato che all'interno della sua opera Leopardi esprime un chiaro distacco dall'arte teatrale, ed anzi, si pronuncia a riguardo ammettendo che essa (ed in particolare quella drammatica) si fonda su di una finzione, che è quella adoperata dall'attore che mette in atto la scena; al teatro Leopardi contrappone l'arte poetica, sempre vera e genuina, che spinge l'autore a "poetare dall'intimo sentimento suo proprio"
La Commedia dunque può risultare propedeutica ai giovani solo quando tratta del mondo e di tutti i vizi che lo contaminano, in modo da renderli consapevoli degli inganni e dei tradimenti di cui possono essere vittime: Leopardi però afferma inoltre che essa tende ad attirare molto più per gli intrecci della trama piuttosto che dalle prediche cui gli attori sono sottoposti, così da trarre la gioventù quasi in inganno, e per questo chiama i giovani a cogliere dalla rappresentazione teatrale soltanto quella sana persuasione per mezzo della quale la commedia vuole rappresentare la "cosa dal vivo e al naturale"; in fondo, secondo l'autore, la vita dell'uomo è un po'come un' opera teatrale in cui non esiste il pubblico ma tutti sono attori e veri protagonisti.
Copertina della prima edizione (vol. VI, 1900)

Riferimenti: Zibaldone versione pdf

STEP #19 NELL'UTOPIA

Platone e l'utopia politica:
uno Stato efficiente e (ir)realizzabile

Ci troviamo in Grecia, verso il 390 a.C. quando Platone iniziò a scrivere la sua opera in forma dialogica passata oggi sotto il nome Repubblica.

Frammento papiraceo della Repubblica
L’oggetto del dialogo, cui prendono parte Socrate, Glaucone, Polemarco, Adimanto, Cefalo e Trasimaco, è la costruzione di una perfetta comunità politica e sociale, un modello ideale di Stato il cui assunto fondamentale è la necessità che a governare siano i filosofi (o che i governanti siano filosofi). Platone è ben consapevole che l'atto del governare sia complicato e che richieda, da parte di chi esercita il potere, di comprendere il bene collettivo e di tradurlo successivamente in leggi, ed anzi, si interroga sul motivo che spinge l'uomo a prendere parte ad una disciplina così complessa come la politica, spesso affidata alla massa amorfa o a pochi incompetenti. Secondo Platone quindi, né la democrazia e né l’oligarchia possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. La giustizia rimane dunque per il filosofo la condizione fondamentale della nascita e della vita dello stato e ciò in cui risiede la felicità di ciascun abitante.

Secondo Platone la comunità deve essere divisa in tre classi:
-governanti (caratterizzati dalla saggezza);
-guerrieri (caratterizzati dal coraggio);
-cittadini-lavoratori (dotati di temperanza).

L’appartenenza ad una o ad un’altra classe è dettata, nello stato platonico, da fatti antropologico-psicologici, cioè dalla prevalenza nella psyché del singolo della parte razionale (governanti), concupiscibile (lavoratori) o irascibile (guerrieri), ovvero dalle qualità individuali. Ecco perché in Platone non si può parlare di caste, ma si deve parlare di classi: una certa mobilità sociale è ammessa. 
L' aspetto fondamentale di questo stato risiede nella tesi economica dell’eliminazione della proprietà privata e nella tesi sessuale dell’eliminazione della famiglia e della parificazione uomo-donna.

OperaRepubblica

lunedì 25 maggio 2020

STEP #18 NELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA

Hannah Arendt e l'efficienza dei campi nazisti


Hannah Arednt nel 1975
Hannah Arendt (1906-1975) fu una scrittrice, politologa, filosofa e storica tedesca di origini ebree e successivamente naturalizzata statunitense, divenuta famosa perché si mostrò intellettualmente molto attiva sul fronte della Shoah. La Arendt scrisse diversi libri a proposito di tale argomento, in alcuni dei quali affrontò in maniera molto lucida il "male" presente nell'uomo e di come questo condizioni le sue azioni, ed uno dei libri divenuti più importanti è sicuramente "La banalità del male" scritto in occasione del processo di Adolf Eichmann.

Secondo la scrittrice, i campi di concentramento nazisti furono, più che strumenti e luoghi di repressione, l'incarnazione del "dominio totale" perseguito dai regimi totalitari, alla stregua di laboratori sperimentali di un progetto di completa sottomissione degli esseri umani.Nella sua opera "Le origini del totalitarismo", la Arendt afferma che i campi di concentramento e di stermino sono serviti al regime totalitario come "laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull'uomo".
E proprio rispetto a questo, tutti gli altri esperimenti rivestono un'importanza secondaria, non esclusi quelli compiuti nel campo della medicina, i cui orrori sono stati riferiti per esteso nei processi contro i medici del III Reich. Il dominio totale, da lei più volte citato, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta ad un'immutabile identità di reazioni in modo che ciascuno di questi fasci di reazione possa essere scambiato con qualsiasi altro, così da fabbricare qualcosa che non è mai esistito prima, come un tipo umano simile agli animali, la cui unica "libertà" consisterebbe nel "preservare la specie". 

Insomma, la scrittrice preme molto sul fatto che i Lager servirono per eliminare la spontaneità stessa dei prigionieri, spontaneità intesa come espressione del comportamento umano, e di trasformare l'uomo in un oggetto. Ovviamente tutto ciò non sarebbe mai potuto succedere in situazioni normali, questo perché la personalità e la spontaneità di ognuno sono l'essenza imprescindibile degli esseri umani, caratterizzandoli e differenziandoli: la macchina nazista fu efficiente perché ci riuscì.
Campo di concentramento di Birkenau, Polonia
RiferiementiLe origini del totalitarismo

lunedì 18 maggio 2020

FILOSOFIA: L'EFFICIENZA DEL METODO

Ci occupiamo adesso del metodo, elemento fondamentale della filosofia perché attorno ad esso si possono capire struttura e tipologia di un qualunque argomento filosofico.
Innanzitutto è importante sottolineare che il metodo è lo strumento di cui si serve la filosofia per costituirsi come scienza, e in secondo luogo sapere che ne esistono di tipologie differenti (basti far notare che all’interno di uno stesso autore possono coesistere metodi diversi).
Uno dei primi metodi che la filosofia ha utilizzato è il suo costruirsi attraverso i mitiChe cos'è il mito? E' un racconto che trova la sua origine in antiche narrazioni, e che ha molto a che fare con le strutture letterarie e con quelle narrative; ciò lascia intendere come la filosofia sia stata inizialmente molto vicina alla narrazione letteraria distaccandosene poi graduatamene, sviluppando notevolmente l’argomentazione.

Propongo in seguito l'estrapolato di una lezione della docente dell'Università degli Studi di Torino Tiziana Andina, sulla spiegazione dell'importanza e dell'efficienza del metodo in filosofia:
«L’indagine genealogica si caratterizza principalmente per essere orientata ad individuare l’origine di concetti, argomenti e sistemi teorici al fine di comprendere anche le loro discendenze e relazioni con altri elementi teorici. Porre attenzione all’origine vuol dire considerare quali siano le radici, per esempio di un certo concetto, così da poter fare luce anche sulle stratificazioni teoriche e culturali che lo hanno determinato nel tempo. 
In momenti diversi della storia del pensiero, alcuni filosofi hanno compiuto questa operazione. In particolare, nell’Ottocento Friedrich Nietzsche (1844-1900) intraprende una ricerca sulle origini della morale, polemizzando sul suo carattere oggettivo – a questo tema sono dedicate le tre dissertazioni che compongono la sua opera, la Genealogia della morale (1887).  Nella seconda metà del Novecento, il filosofo e storico francese Michel Foucault (1926-1984) risale all’origine della relazione tra il fenomeno della follia e il suo riconoscimento sociale. Considerando il nesso tra le strutture di cura, i malati e la loro marginalizzazione, egli sviluppa la sua indagine ne La storia della follia nell’età classica (1961) chiarendo come lo status di ‘folle’ per le persone con disagi mentali si sia imposto nella società. Il metodo genealogico presuppone dunque che il compito della filosofia sia quello di portare alla luce la complessità dell'origine e delle stratificazioni concettuali e insieme le implicazioni teoriche ad essi connesse»

venerdì 1 maggio 2020

STEP #12 TOMMASO MORO E IL SOGNO DI UNA SOCIETA' EFFICIENTE


L'isola di Utopia. Xilografia dalla 
prima edizione dell'opera omonima, 
Lovanio 1516.
Utopìa è un romanzo del filosofo e politico inglese Tommaso Moro, pubblicato nel 1516. Per la stesura di questo scritto, l'autore si è ispirato all'opera La Repubblica del filosofo greco Platone, anch'essa scritta in forma dialogica.In Utopia si ha il progetto di una nazione ideale e vengono trattati argomenti come la filosofia, la politica, l'economia e l'etica..
Utopia esprime il sogno rinascimentale di una società pacifica dove è la cultura a dominare e a regolare la vita degli uomini.

L'opera è suddivisa in due libri. Nella primo Moro presenta l'Inghilterra del XV secolo, e nel secondo avviene la narrazione del viaggio che il protagonista filosofo Raffaele Itlodeo compie per primo nell'isola di Utopia, una societas perfecta divisa in 54 città che, a differenza dell'Inghilterra, ha saputo risolvere i suoi contrasti sociali grazie ad un innovativo sistema di organizzazione politica basatasi sull'abolizione della proprietà privata, sulla condivisione dei beni, sulla convinzione che il commercio sia inutile e sull'impegno di tutto il popolo di lavorare sei ore al giorno nell'ottica di fornire all'isola tutti i beni di cui necessita. Il resto del tempo deve essere dedicato allo studio e al riposo. In questo modo, la comunità di Utopia può sviluppare la propria cultura e vivere in maniera pacifica e tranquilla.
Insomma, in questo romanzo Moro stabilisce le priorità degli abitanti, l'organizzazione politica, sociale e giuridica, gli interessi degli uomini, la tolleranza religiosa (tranne che per gli atei), la suddivisione delle ricchezze: tutto concorre alla delineazione di una società perfattamente efficiente.

RiferimentiL'Utopia
Versione dell'opera interaL'Utopia Tommaso Moro pdf

lunedì 13 aprile 2020

STEP #08 NEI DIALOGHI DI PLATONE

Accademia di Platone
Nel dialogo intitolato "Amanti" Platone narra di come Socrate e due anonimi, conversando all'interno del ginnasio del maestro Dioniso, indagano attorno allo statuto della filosofia. 
Al termine della discussione è ben chiara l'immagine della filosofia che Platone, per mezzo di Socrate, vuole far emergere: la filosofia non è pura erudizione ma è una disciplina essenziale per l'esercizio della politica, considerata una delle arti più nobili per un ateniese. 
Dal dialogo si evince una lucida descrizione dell'uomo filosofo, concepito come colui che conosce un po' di tutte le arti, la cui conoscenza non è equiparabile a quella del rispettivo esperto in un'arte specifica, ma che nell'insieme lo elevano dalla massa degli uomini comuni. Il filosofo, dunque, si rivela un uomo efficiente che ha fatto delle sue molteplici conoscenze la chiave per poter prendere decisioni sagge, giudicare e amministrare la giustizia.Di seguito riporto una citazione simbolo del concetto espresso nel dialogo: 
«Quando un medico prescrive una medicina ai malati, non è vergogna per il filosofo non poter seguire quanto si dice né contribuire in nulla a quanto si dice o si fa, e così pure quando qualunque altro specialista si comporti in modo analogo, varrà lo stesso discorso. Ma quando si tratta di un giudice o di un re o di qualcun altro di coloro che abbiamo passato in rassegna, non è vergogna per il filosofo non poterli seguire o contribuire in qualcosa?»


RiferimentoAmanti_dialogo_Platone

mercoledì 8 aprile 2020

RITORNO ALL' EFFICIENZA DOPO LA TEMPESTA

"La quiete dopo la tempesta", poesia di Giacomo Leopardi facente parte della raccolta Canti e pubblicata per la prima volta nel 1831, diventa protagonista del tema del "ritorno all'ordine", inteso come "ritorno all'operatività" umana, cioè alla quotidiana efficienza della vita.
Primi venti versi de
La quiete dopo la tempesta
Per una completa analisi della poesia ritengo che sia necessario accennare un riferimento alla nota teoria del piacere leopardiana: essa è una teoria che nega l'esistenza positiva del piacere, ed intende quest'ultimo come pura "assenza di dolore". Secondo Leopardi quindi, il piacere provato dagli uomini non è altro che un sospiro tra un dolore e l'altro della vita, mentre il vero benessere non lo si può raggiungere sulla Terra ma soltanto attraverso la morte.
E' questo il significato del verso "Piacer figlio d'affanno", riferimento che viene esplicato alla massima potenza direttamente nel titolo del componimento stesso.
Leopardi sa che tutti si sono rallegrati e ora medita sulla felicità stillata dal ritorno all'efficienza della vita, ma al tempo stesso sa che 
si tratta di una felicità inesistente, fallace, non tangibile, ed esprime tale concetto attraverso il motivo del pessimismo cosmico, secondo la cui visione la Natura è puramente indifferente nei confronti dell'uomo, maligna e soltanto intenta a preservare la sua specie.
E così vengono celebrati la quiete ed il breve e irraggiungibile piacere, caratterizzati dal ritorno alla quotidianità e all'efficienza - seppur illusoria - della vita.

Versione completaLa quiete dopo la tempesta, Leopardi

L'EFFICIENZA DEL PRINCIPE MACHIAVELLIANO

Personalmente ritengo che il concetto di efficienza sia da sempre stato centrale o, laddove non lo fosse, quantomeno presente - anche marginalmente - nel corso dello svolgersi delle epoche letterarie (soprattutto ma non solo) italiane.
Come opera-simbolo di tale concetto ho scelto di trattare il "Principe" (inizi del XVI secolo) del grandissimo scrittore fiorentino Niccolò Machiavelli: in essa è inserita la tematica dell'efficienza dotata di una forza comunicativa sorprendente e dalla presenza assolutamente centrale all'interno della trattazione.

copertina de il Principe, ed. 1550
E' sull'efficienza del Principe che voglio condurre la mia analisi, i cui capitoli principali vanno dal XV al XXIII, non per nulla proprio quelli che destarono maggior polemica e scalpore della critica, in quanto privilegiano un comportamento quasi a-morale (inteso come assenza di moralità, e non come immoralità) del principe, al fine di conseguire la "verità effettuale della cosa". Il Principe non deve essere inteso come una costruzione ideale da seguire, tutt'al più deve rappresentare un modello che esprima al meglio come "far politica" in un mondo di "non buoni", misurandosi con la realtà concreta e partendo da quella per giungere alle leggi universali da applicare. Per conseguire ciò, il politico si deve inevitabilmente macchiare di qualità talvolta biasimevoli: la grande svolta machiavelliana si esplica nel ritenere che non necessariamente alcune qualità positive siano adatte al conseguimento dei fini, ma che viceversa, alcune qualità negative risultino invece indispensabili, delineando una differenza tra il giudizio politico e quello morale. 

Riferimenti: "IL PIACERE DEI TESTI - L'Umanesimo, il Rinascimento e l'età della Controriforma" vol. 2
Versione integrale dell'operaPrincipe - Machiavelli